(ANSA) - ROMA, 05 NOV - Pubblichiamo in anteprima, per
gentile concessione della casa editrice Longanesi, uno stralcio
sul razzismo dall'autobiografia di Will Smith, 'Will', che esce
il 9 novembre e sarà nelle librerie italiane l'11 novembre, con
un inserto fotografico inedito. Ecco un brano del memoir, di
oltre 400 pagine, scritto con Mark Manson, in cui Will Smith si
racconta per la prima volta.
"Mi sono sentito chiamare apertamente 'negro' cinque o sei volte
in tutta la mia vita: due volte da altrettanti agenti di
polizia, in un paio di occasioni da perfetti sconosciuti, in una
circostanza da un 'amico' bianco, ma mai da qualcuno che pensavo
fosse intelligente o forte. Una volta ho sentito alcuni dei
bambini bianchi a scuola 'scherzare' su una giornata di 'caccia
al negro', una 'festività' apparentemente ben nota nei loro
quartieri. Ai primi del Novecento, alcuni membri della comunità
bianca di Philly sceglievano un giorno specifico per aggredire
qualsiasi nero vedessero aggirarsi nel vicinato. Settant'anni
dopo, alcuni dei miei compagni di classe della scuola cattolica
trovavano ancora divertente scherzarci sopra. Ma qualsiasi vera
esperienza io abbia avuto con episodi di aperto razzismo si è
verificata con persone che nella migliore delle ipotesi
consideravo come nemici fragili. Gente che ai miei occhi
appariva
ottusa e rabbiosa, e che non mi sembrava per nulla difficile da
vincere o schivare. Di conseguenza, questa forma di razzismo
palese, benché pericolosa e onnipresente come minaccia esterna,
non mi ha mai fatto sentire inferiore.
Sono cresciuto nella convinzione di essere intrinsecamente
attrezzato per gestire qualsiasi problema potesse sorgere in
vita mia, razzismo incluso. Una combinazione di duro lavoro,
istruzione e fede in Dio avrebbe abbattuto qualsiasi ostacolo o
nemico. L'unica variabile era il grado d'impegno che ho dedicato
alla battaglia.
Più crescevo, pero, più diventavo consapevole di certe forme di
pregiudizio silenziose, inespresse e più insidiose perché sempre
in agguato. Mi cacciavo in guai più grossi se solo facevo le
stesse cose che facevano i miei compagni di classe bianchi.
Venivo interpellato con minor frequenza e sentivo che gli
insegnanti mi prendevano meno sul serio.
Ho trascorso la maggior parte della mia infanzia a cavallo tra
due culture: il mondo dei neri, a casa, nel quartiere, alla
chiesa battista e al negozio di Papo; e il mondo bianco della
scuola, della Chiesa cattolica e della cultura prevalente in
America. Andavo in una chiesa frequentata esclusivamente da
neri, vivevo in una strada abitata solo da neri e sono cresciuto
giocando soprattutto con altri ragazzini neri. Allo stesso
tempo, però, ero uno dei soli tre bambini neri che andavano alla
Nostra Signora di Lourdes, la scuola cattolica locale. […]
Alla scuola cattolica, per quanto fossi intelligente e parlassi
bene, rimanevo pur sempre il ragazzino nero. A Wynnefield, per
quanto fossi aggiornato in fatto di musica o di moda, non ero
mai nero abbastanza. Sono diventato uno dei primi artisti hip
hop ritenuto sufficientemente "sicuro" per il pubblico bianco.
Ma il pubblico nero mi etichettava come rammollito perché non
rappavo stronzate hardcore e gangsta. Una dinamica razziale,
questa, destinata a darmi il tormento per tutta la vita.
Ma proprio come a casa, dare spettacolo e fare ridere divennero
la mia spada e il mio scudo. Ero il classico pagliaccio della
classe, che raccontava barzellette, emetteva versi stupidi e non
smetteva mai di rendersi ridicolo. E finché rimanevo il
ragazzino spassoso, significava che non ero soltanto il
ragazzino nero.
Divertente è un concetto che esula dai pregiudizi razziali; la
comicità disinnesca ogni negatività. È impossibile essere
arrabbiato, rancoroso o violento quando sei piegato in due dalle
risate". (ANSA).
Will Smith, un brano sul razzismo in anteprima dal memoir
Per gentile concessione della casa editrice Longanesi
